YOGA Ravenna
Paola Salerno

"Dharana, dhyana e samadhi sono tre stadi intimamente legati che Patanjali definisce con un unico termine: Samyama, perché i loro effetti non possono venire menzionati separatamente, essi fanno parte del processo meditativo che ci permette di avere accesso a una intelligenza più vasta e profonda per una conoscenza penetrativa della realtà, diversa da quella che ci possono offrire i nostri sensi e le nostre percezioni normali."

Dharana costituisce il primo risultato del pratyahara, la “ritrazione”: l’essere umano dopo aver ritirato i sensi internamente, si concentra su un solo oggetto imparando una prima forma di unità. Il termine dharana deriva dalla radice dhr, che significa “tenere”, “tenere insieme”, “sostenere”. L’idea è quella di legare tutti gli elementi intorno a un solo punto centrale, ossia concentrare le energie coscienti  su un punto fisso. Gli antichi saggi avevano  sperimentato in questo sforzo cosciente un’immensa potenzialità, non solo per giungere a modificare stati di coscienza, ma anche per risvegliare stati di pace, di gioia, di contentezza e di amore. Essi avevano scoperto che uno sforzo fisico e psichico, effettuato volontariamente, può far nascere dei doni spirituali. E’ questo il mistero della meditazione.
L’assenza di perturbazioni provocate dai sensi, che si impara con pratyahara rende interiormente più centrati, più disponibili e permette alla mente di concentrarsi. Dharana è tradotto abitualmente come concentrazione volontaria attiva su un oggetto, così infatti la definisce Patanjali:  “L’attenzione è la localizzazione della mente” (Y.S.1,III°).
La mente ha acquisito la capacità di mantenersi in un territorio circoscritto, privilegiato, con un livello molto alto di presenza, essere con ciò che siamo, con quello che stiamo facendo, non più soggetti alla fluttuazione mentale, non c’è più dispersione, c’è come una stabilità di pienezza, sentirsi uno con quello che si sta facendo, non c’è più il problema della distrazione o non distrazione, non c'è bisogna lottare per fare silenzio. Perché ciò si realizzi è estremamente importante aver curato al massimo una condizione di presenza interiore e di silenzio mentale in asana e pranayama.  
In dharana l’intera coscienza è libera da tutto il movimento del passato, è purificata, stabile, focalizzata nello spazio interiore ed esteriore, avvolta dal vuoto e dalla pace, se questo stato viene mantenuto, allora la mente si sente unificata con il vuoto, con il silenzio, si sperimenta la meditazione: dhyana.
Il commentatore di Patanjali, Vyasa, enumera i differenti luoghi, (desha) sui quali la mente può concentrarsi: l’ombelico, il loto del cuore, la luce nella testa, la punta del naso, la punta della lingua e alcuni altri dello stesso genere.
Quindi dharana, come atto volontario di concentrazione, comprende molto varianti, infatti oltre a fissare la propria attenzione su un oggetto esterno si può fissare su un punto interno del nostro corpo, come avviene durante le asana o il pranayama.


Tecniche per dharana
Gli yogi posteriori a Patanjali hanno indicato una serie di metodi per arrivare a uno stato di intensa concentrazione; gli esercizi preparatori di fissazione dello sguardo su un oggetto per sottrarre la mente dalla distrazione, chiamati trataka, sono molto utili per ottenere buone visualizzazioni. Per “visualizzazione” si deve intendere la facoltà di produrre nello spazio mentale un’immagine quasi fotografica e non il semplice mantenimento di un’idea sulla cosa o vaga immaginazione.
La concentrazione su supporti interni si pratica di preferenza nell’oscurità e fa ricorso alla visualizzazione e all’udito: i più noti sono i punti luminosi, centri sottili, ruote turbinanti, suono interiore, luminosità nella testa ecc. La concentrazione sul suono interno, nada, è ampiamente descritta nello Hathayoga-pradipika, mentre la fissazione sulla luminosità della testa viene menzionata negli Yoga sutra sotto il nome di taraka (Y.S.32-33, III°). Le concentrazioni sui centri sottili (chakra) o sulle linee di circolazione delle energie (nadi) appartengono al Kundalini yoga di tradizione tantrica. 
La concentrazione detta “esterna” è adatta a tutti, si pratica su oggetti lontani ed esterni: disco solare al tramonto o all’alba, luna piena, albero, roccia, montagna ecc.
La concentrazione “intermedia” si ottiene tramite la persistenza visiva di un’immagine. Si tratta di fissare senza battere le palpebre  e fino a che sgorghino le lacrime un punto, un’immagine, uno yantra ecc. collocato davanti a una distanza conveniente e poi chiudere gli occhi lasciando permanere l’immagine residua il più a lungo possibile. Si procede quindi come per la concentrazione interna.
Alcuni insegnanti suggeriscono di visualizzare qualcosa che ci è gradito, può essere un simbolo, un aspetto della natura in cui ci identifichiamo, uno yantra, un mandala che fa emergere dimensioni e potenzialità non conosciute, non manifeste.
A questi esercizi si può aggiungere il controllo metodico del passaggio tra lo stato di veglia e quello di sonno, imparare a cogliere il vuoto che esiste nel passaggio. Questo addestramento ci porta progressivamente a cogliere gli intervalli che spesso passano inosservati: tra due periodi, di una sequenza, tra due pensieri, tra due respiri, tra due atti minimi o due sensazioni fuggevoli vi è sempre una pausa, un silenzio, un vuoto, un centro, là brilla la coscienza indifferenziata.
Quello che è importante per Patanjali non è la tecnica o l’oggetto di concentrazione che si sceglie, ma il poter entrare in uno stato meditativo; l’oggetto scelto, infatti, non deve né ferire, né produrre agitazione e malessere. Comunque, qualunque esso sia, si tratta sempre“di un viaggio verso l’interno”, di un tempo di unione all’oggetto e di un ritorno all’esterno. Abbiamo visto che la concentrazione si può fare su tantissimi punti, ciò che è essenziale è la sua qualità, l’intensità dell’esserci, perché il cuore della meditazione sta nel comprendere che tutte le tecniche sono solo dei mezzi per raggiungere una certa condizione che possiamo chiamare silenzio, centratura, visione profonda.
tratto da AltraSalute

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